Ma come si fa a lavorare come Growth Hacker? Il caso di Lara d’Argento

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È sotto gli occhi di tutti che l’hype intorno al Growth Hacking non sembra scemare. Proliferano i corsi, i libri, gli esperti e gli pseudo tali. Ma in tutto questa confusione intorno al tema, con picchi di qualità a volte bassissimi, c’è anche tanto di buono e la figura del Growth Hacker, un po’ alla volta, sembra essere accettata anche dalle realtà italiane.

Sempre più spesso mi capita di inoltrare ai miei studenti offerte di lavoro di aziende che cercano figure relative alla metodologia Growth e ogni tanto qualcuno di questi studenti viene assunto.

Poter fare da punto di incontro tra domanda e offerta, mi mette in una posizione avvantaggiata di osservatore che sto provando a sfruttare per raccontare quanto di buono e interessante sta nascendo intorno a questo movimento.

Sto provando a farlo con il secondo libro e le relative interviste ad aziende italiane che sperimentano, ma vorrei continuare a farlo raccontando altre storie di realtà meno blasonate, ma dalle quali c’è molto da imparare a mio avviso.

L’intervista di oggi è proprio uno di questi casi.

Goditela, perché è piena di spunti super interessanti!

Raffaele Gaito: Ciao Lara, come prima cosa presentati. Chi sei, di cosa ti occupi e che background hai?

Lara d’Argento: Ciao, il mio nome è Lara d’Argento e mi occupo di growth hacking e di innovazione culturale, dunque ho esperienza in progetti sia ROI-oriented, sia SROI-oriented.

Sono una multipotenziale: il mio percorso di vita è un intreccio di passioni ed interessi differenti. Ho una laurea specialistica italiana in Scienze internazionali e diplomatiche ed un Master II francese in Direzione di progetti culturali internazionali.

Dopo un’esperienza in una ONG danese e dopo la borsa di studio per il NATO Model a Washington DC, pensavo che mi sarei dedicata alla politica internazionale. Invece, dopo il Leonardo a Praga nel settore culturale, mi sono ritrovata nella carriera commerciale della scena startup a Berlino.

Questo è stato senz’altro un punto di svolta: il mio lavoro era vendere un software tedesco di bid management sui mercati internazionali, per la pubblicità su Google.

Parlo 4,5 lingue (lo 0,5 è il tedesco) e ciò mi ha permesso di entrare in contatto con tante agenzie su scala globale, che a loro volta curavano molti clienti differenti con necessità e budget diversi, dal marchio di moda all’agenzia di pompe funebri, all’e-commerce di profumi, passando per il negozio specializzato in estintori.

R.G.: Wow! In questo scenario che hai descritto come ti sei avvicinata al Growth Hacking e, soprattutto, perché hai deciso di farne il tuo lavoro?

L.D.: Quando hai l’incarico di aprire nuovi mercati in una startup, il growth hacking è una necessità.

All’epoca, ancora non sapevo si chiamasse così.Ignoravo che questa metodologia operativa fosse codificata. In altre parole, facevo growth hacking prima di sapere che si chiamasse growth hacking.

Ero a Berlino, cominciai a seguire dei Meetup sul tema. Ricercando più informazioni, trovai un italiano che aveva scritto un libro a riguardo: “Growth Hacker – Mindset e strumenti per far crescere il tuo business”.

Ti suona familiare, vero!?

Abitavo ancora in Germania quando mi iscrissi alla Masterclass sul Growth Hacking tenuta online da te e Luca Barboni su Lacerba.

Dopo metà vita all’estero, decido di tornare nella mia città, che è Bari, e vado alla tappa di presentazione di quel libro, dove ne conosco l’autore!

Avevo lasciato la Silicon Allee; apparentemente, non avevo più bisogno del growth hacking in una città come Bari, dove non sapendo da dove ricominciare, ho iniziato a praticare surf in inverno, perché mi aiutava a gestire le paure.

Onda dopo onda, ho capito di essere in prima persona io l’intersezione: crescita commerciale, progetti culturali e surf. Non volevo rinunciare a nulla: ciascuna di queste tre macro aree che mi definiscono è funzionale alla risoluzione di problemi nell’altra.

Ecco perché ho deciso di fare del growth hacking il mio lavoro: mi calza a pennello, è l’espressione naturale per la mia persona, non ho trovato finora altra via possibile.

Mi piace, mi fa sentire libera di creare e di misurare, di inventare e di analizzare, di lavorare contemporaneamente sola ed in squadra, di potermi occupare sia di marketing, che si prodotto, che di ricerca.

Finalmente, non devo più scegliere e così facendo posso dare il meglio di me. Come afferma Emilie Wapnick: “L’innovazione nasce nelle intersezioni”.

R.G.: Su queste tematiche c’è sempre il dubbio “ma si può fare anche in Italia?”. Tu che lo fai non solo in Italia, ma anche in una realtà più piccola e periferica come Bari, cosa ne pensi?

L.D.: Penso che ho perso meno tempo a provarci, tutto qui! In questo, ancora una volta, l’approccio sperimentale del growth hacking è stato fondamentale.

Ho studiato a lungo: il contesto, il tessuto industriale della mia zona, le necessità delle aziende presenti sul territorio, la domanda e l’offerta di mercato. Bari è per lo più composta da mPMI; non volevo spostarmi in città più industrializzate, perché mi sarei allontanata dal mare e dal surf, pertanto dovevo trovare l’ottimo paretiano lì, non distante dalle onde.

Conoscere se stessi è essenziale per valutare le priorità. Ho fatto dei tentativi; sulla base dei risultati, ho deciso il da farsi. Ci ho provato, pertanto adesso posso rispondere: sì, è possibile ed io ne sono la prova.

Di solito, comunque, nulla è impossibile 😉

Ho sempre curato sia la mia formazione in materia, sia lo sviluppo del tema, a livello nazionale e locale.

A Milano, mi sono proposta volontariamente per contribuire al successo delle edizioni 2019 del Growth Hacking Day, il maggiore evento europeo nel settore, con un focus specifico sulle oratrici: le GH Ladies.

lara dargento growth hacking day

Inoltre, grazie al Punto Impresa Digitale della Camera di Commercio di Bari e a Luca Barboni, abbiamo per la prima volta in Italia fatto entrare questo tema in una CCIAA, organizzando un seminario gratuito ed aperto a chiunque sul growth hacking per la mPMI, su cui poi sono stata invitata a parlare in un’intervista radiofonica presso l’Università di Bari.

Ci ho sempre creduto e ne sono orgogliosa, volevo si parlasse di growth hacking in una sede istituzionale per sostenere il tessuto produttivo locale e volevo che la mia città fosse la prima a dare l’esempio: il growth hacking non è una moda, non è un tema caldo per il solo settore startup, non è un termine attraente da usare all’aperitivo, non è qualcosa che funziona soltanto nelle ‘grandi’ città.

Quest’anno, infine, ho condotto dei Meetup nella mia città, per sviluppare ulteriormente l’argomento.

Nel frattempo, ho frequentato il bootcamp di growth hacking sia tuo, che di Luca Barboni. Il bootcamp è la modalità in cui, secondo me, l’esperienza di formazione sul growth hacking si esprime al meglio: “la morte sua”, l’applicazione pratica mediante esercizi e simulazioni.

Non ho mai smesso di studiare i nuovi contenuti (post, video, podcast) dei miei mentori e di porre domande a chi sapevo avesse cominciato a lavorare da poco, come Adriano Ercolani di Treedom: nel growth hacking più che altrove, non si finisce mai di imparare e tutto è in divenire ed in aggiornamento.

A causa di questi impegni, ho avuto zero tempo libero: è vero.

Come ho scritto sopra, conoscersi è fondamentale: io volevo riuscirci, del resto non m’importava.

R.G.: Come hai fatto a farti assumere come Growth Hacker? Come sei riuscita a “venderti” con questo ruolo?

L.D.: La fonetica della parola non aiuta, lo ammetto: growth hacking non è facile da pronunciare, quando mi presento.

La mia premessa è, come sempre, la verità: non offro trucchi, né scorciatoie, né soluzioni panacea, né effetti speciali. Io propongo di studiare e di analizzare i dati. Soltanto dopo, parlo. Non prevedo il futuro, misuro il presente. Dopo aver chiarito questi punti, mi accorgo se l’intesa c’è e ci sarà, oppure no.

A Berlino, ho visto fior di startup fallire, perché il team s’era sfasciato: nove su dieci, a dispetto di tutti i capitali di cui potessero beneficiare. Sono le persone che producono il fatturato, non il prodotto.

Ecco perché sono attenta nel verificare la congruenza fra l’azienda committente e me: il growth hacking è un processo che coinvolge la squadra tutta, perciò, anche se il CEO in persona mi assume, se non stabilisco un’intesa con il team, non mi passeranno neppure i post-it, figuriamoci i dati di cui avrò bisogno.

La prima esperienza, a Bari, è stata con un’agenzia di comunicazione, che aveva pubblicato un annuncio per cercare una consulenza di growth hacking, destinata ad un progetto singolo. Ho inviato loro un’e-mail, ci siamo incontrati. La risposta loro: “sei stata l’unica candidatura che abbiamo ricevuto e per nostra fortuna anche quella che ci convince e che ci piace, cominci domani”.

La seconda esperienza, in una cittadina in provincia di Bari, è successiva alle azioni che ho descritto di aver intrapreso per rispondere alla domanda precedente, dunque ad una esposizione ‘mediatica’ che ha permesso di consolidare il mio posizionamento.

Non mi sono proposta, sono stata cercata ed è stato un lungo corteggiamento, intervallato da alcuni imprevisti lievi di salute, che mi hanno bloccato per un po’.

Pensavo che avrei perso l’opportunità; sono felice di aver avuto torto. Il CEO era venuto al Growth Hacking Day e più di una volta in vari eventi aveva incontrato e parlato coi miei mentori, pertanto si tratta di un imprenditore che era già consapevole di cosa fosse il growth hacking.

Un problema comune a molte mPMI, dunque rilevante nel territorio barese, è il seguente: “Pago la consulenza growth hacking, magari anche in modalità corso intensivo di tre giorni con alcuni miei dipendenti… E poi, chi farà le cose? Se devo affidare compiti in outsourcing, chi coordinerà e chi verificherà? Io ho bisogno di una risorsa qui, in azienda, in squadra con noi, anche a tempo parziale, purché continuativo”.

Mi sono resa conto che aveva ragione.

Il part-time per me (e per gli altri progetti che seguo) è fondamentale, dunque ho accettato con grande entusiasmo questa nuova avventura, che mi porta nel settore IoT, in cui avevo zero esperienza.

R.G.: Provando a scendere nel dettaglio del tuo ruolo, concretamente in azienda cosa fai? Di cosa ti stai occupando?

L.D.: Mi occupo di un mercato specifico per un prodotto dell’azienda, almeno finora.

Analizzare uno scenario ristretto rende più facile ed efficace la sperimentazione e consente di acquisire dati che possono essere utili per esplorazioni su segmenti più ampi. Mi reco in azienda due giorni a settimana; il resto del tempo, in remoto.

Ritengo sia utile descrivere come ho iniziato: il primo giorno di lavoro, ho ricominciato dalle basi. Mi sono chiesta per chi stessimo facendo cosa, con l’aiuto di un Business Model Canvas da riempire, mediante un lavoro di squadra. Credo nella visualizzazione: post-it e pennarelli di colori differenti ci hanno aiutato a distinguere priorità, obiettivi, problemi, soluzioni.

Dopo, ho elaborato la mappa seguente: business model, buyer persona, value proposition (sulla base dello storico dati, ossia di quanto fosse stato prodotto fino a prima che arrivassi). Poi, customer journey inserito nel funnel AAARRR. Definiti i KPI del funnel, i problemi sono emersi da soli.

R.G.: Nel fare il tuo lavoro, quali sono le difficoltà principali che hai notato, soprattutto nella fase iniziale?

L.D.: Dico tanti no, molti più dei sì!

No alle soluzioni prima che abbia identificato i problemi, no alla pubblicità se prima non ho verificato che quel canale sia profittevole, no all’investimento X se prima non ho analizzato il suo ritorno. Sembro capricciosa, ma è compito del growth hacker sapersi imporre per il bene del processo.

Soprattutto all’inizio, quando la parte di studio è maggiore di quella operativa, ho trascorso molto tempo in silenzio a leggere rapporti e resoconti, sia per i dati, sia per capire il settore e la concorrenza. Questo temporaneo isolamento poteva creare inibizioni: a parlare, a domandare, perfino ad avvicinarsi.

“Apparirò circondata da una nube di mistero”, ho pensato. Mi sono immaginata come in un fumetto.

Così, ho adottato delle misure affinché la comunicazione non mancasse, prima che anche soltanto potessero esserci avvisaglie di problemi; mi piace la trasparenza.

Al CEO, invio un’e-mail di due righe un paio di volte a settimana, sotto forma di elenco puntato; alla squadra, ho chiesto un breve aggiornamento collettivo il lunedì mattina, affinché chiunque sappia su cosa ciascun dipartimento stia lavorando.

Sono l’unica con un profilo ‘ibrido’, in mezzo a tanti specialisti. Sono anche l’unica non ingegnere, con un vocabolario ed una visione del tutto differenti.

Sono l’ultima arrivata e la prima che abbia uno sguardo esterno, brutale, critico sul prodotto su cui i miei colleghi lavorano da anni. Occorre rispetto e garbo, perché anche se fornissi la chiave per la conquista del mondo (o almeno del mercato), io, senza i miei colleghi, non saprei fare alcunché.

Non so progettare un dispositivo smart home e non m’interessa imparare. Lavoro non per coordinare le persone, bensì per coordinare il processo.

Ingegneria inversa, altro insegnamento growth hacking: si comincia dalla fine.

M’interessa il ROI, dunque m’interessa il prodotto, dunque m’interessa la squadra che c’è dietro quel prodotto. Sono consapevole che dire “faccio growth hacking” possa spesso risultare poco esaustivo, perciò la porta della stanza in cui mi trovo è sempre aperta.

Mi piace studiare l’effetto su chi entra di ciò che scrivo sulla lavagna, domandare un riscontro a caldo. Verso la crescita, si procede uniti e compatti.

R.G.: Qual è l’errore più grande da cui hai imparato qualcosa negli ultimi mesi?

L.D.: Non avere fretta di conseguire risultati che poi non si è in grado di gestire: “la potenza è nulla, senza controllo”.

R.G.: Quale consiglio vuoi dare ai più giovani che puntano a fare il growth hacker come lavoro?

L.D.: Direi almeno tre cose importanti:

  1. Diffida di chi non abbia dubbi.
    Io ho sempre più domande che risposte. La frustrazione ed il fallimento sono fasi del processo: è importante parlarne, ascoltarsi e dare il giusto peso, con un approccio costruttivo.
    Non credo alle maschere: ho avuto momenti di sconforto, dovuti per lo più all’essere consapevole di essere un intreccio di molteplici interessi ed esperienze, come fosse una debolezza. Dopo più di metà vita trascorsa a dovermene quasi scusare, ho capito che invece questa è la mia forza e che questo è il motivo per cui sono e sarò pagata.
    Conosco me stessa, perciò il mio consiglio più importante è il seguente: chiediti cosa ti renderebbe felice. Io volevo lavorare come growth hacker, occuparmi di progetti culturali e praticare surf: tutto nella stessa città. Non ho abilità tecniche rilevanti, m’intendo soltanto di tenacia.
  2. Fidati del processo e abbracciane ogni fase.
    Una volta che avrai definito il traguardo, scegli il mentore e fai in modo che entriate l’uno nella vita dell’altro, dandogli la possibilità di guidarti verso i tuoi obiettivi: commenta, domanda, vai a trovarlo all’evento, cimentati nelle sue prove. Se Luca e Raffaele non mi fossero piaciuti innanzi tutto umanamente, mi sarei fermata prima, lasciando perdere il growth hacking.
  3. Infine, il viaggio.
    Sono passata ad abitare da Berlino Kreuzberg a Bari vecchia, senza la minima idea che stessi allo stesso tempo diventando growth hacker. Eppure l’ho fatto accadere, perciò puoi farlo anche tu, ovunque ti trovi, adesso.
    Fai il meglio che puoi con le risorse che hai nel luogo in cui ti trovi. I cambiamenti saranno rilevanti, non sempre facili e spesso non prevedibili. Porta pazienza e ricorda la lezione dell’ingegneria inversa: immàginati tra un paio di anni a raccontare quanto ancora non accaduto.

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