Growth Hacking: tutto quello che devi sapere

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Questo post è un mio estratto dal libro The Startup Canvas di Massimo Ciaglia

Il Growth Hacking come processo

La definizione di Growth Hacking che preferisco è quella di Wikipedia in inglese, che a sua volta è presa dal sito ufficiale del noto Growth Hacker Ehsan Jahandarpour e dice “Il Growth Hacking è un processo di sperimentazione rapida sul prodotto e sui canali di marketing per trovare il modo più efficiente di far crescere un business”.

Ho sempre adorato questa definizione perché usa due parole (processo ed esperimento) che sono alla base di questa metodologia riuscendo a dargli un contesto molto più concreto e completo rispetto a tanta altra “fuffa” che si trova in rete.

In molti ambiti, purtroppo, il Growth Hacking viene ancora associato a una serie di trucchetti e tattiche che si possono applicare sul proprio business per ottenere risultati entusiasmanti. Niente di più falso, ovviamente.

Dall’altro lato, spesso si tende a confondere il Growth Hacking con attività come il performance marketing o la conversion rate optimization e, ancora una volta, questo parallelismo è sbagliato se non addirittura fuorviante.

Il Growth Hacking è un processo con delle fasi ben definite, basato sul concetto di sperimentazione continua, che coinvolge il marketing in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto il prodotto. Anzi, nella fase iniziale di vita di un’azienda, si lavora quasi esclusivamente su esperimenti di prodotto.

Comprendere e padroneggiare il processo è talmente importante che nel mio libro “Growth Hacker, mindset e strumenti per far crescere il tuo business” vi ho dedicato un capitolo intero” per affrontare in dettaglio ognuna delle sue fasi. Si tratta fondamentalmente di quattro step che vengono eseguiti in un ciclo di ottimizzazione continua: analisi; ideazione; prioritizzazione; esecuzione; e così via.

Analisi

La fase di analisi è un po’ la chiave dell’intero processo di Growth Hacking visto che è il punto di partenza del ciclo e anche il punto di arrivo. Infatti nella macrodefinizione di analisi ricade sia l’analisi preliminare, che viene fatta prima degli esperimenti, sia l’analisi dei risultati che viene svolta a conclusione di essi.

In questa fase è importante raccogliere quante più informazioni possibili per poi utilizzarle in fase di ideazione degli esperimenti. Ecco perché tra i dati che è necessario raccogliere ci sono sia dati qualitativi che dati quantitativi, oltre a fare largo uso dei dati raccolti sui vecchi esperimenti.

Avere un posto dove queste informazioni vengono raccolte (tecnicamente definito experiment bucket) si rivela di fondamentale importanza quando il team cresce, quando il numero di esperimenti inizia a diventare notevole e quando bisogna tenere traccia di ciò che è stato fatto in passato per non ripetere gli stessi errori o, semplicemente, gli stessi esperimenti.

Ideazione

Completata la fase di analisi si passa alla fase di ideazione vera e propria. Un’attività costante di brainstorming per tirare fuori nuove idee da sperimentare, sia sugli aspetti di prodotto che sugli aspetti di marketing.

In questa fase è fondamentale avere in input sia fattori interni che esterni per far si che ci sia quanta più contaminazione possibile e che l’approccio al brainstorming sia creativo e non convenzionale.

Alcuni esempi di input interni sono:

  • Il team. Le sue esperienze e le sue competenze influenzeranno inevitabilmente il processo di ideazione. È importante quindi svolgere questa attività con un team che sia molto eterogeneo.
  • Gli esperimenti precedenti. Avere una knowledge base da cui poter attingere diventa un fattore importante ai fini della generazione di nuove idee. In particolar modo giocano un ruolo fondamentali gli insegnamenti ottenuti dagli esperimenti precendenti.

Alcuni esempi di input esterni sono:

  • I clienti. Ecco perché in fase iniziale è importante fare una buona analisi dei propri clienti. A volte basta uno spunto ottenuto durante un’intervista a generare un’idea brillante e un nuovo esperimento.
  • I competitor. Uno dei concetti principali del Growth Hacking è quello di non reinventare la ruota. Tra le prime attività che si possono testare sono proprio quelle che ricaviamo dall’osservazione dei competitor.

Prioritizzazione

Una volta ottenute delle idee per esperimenti dalla fase di ideazione è importante passare a prioritizzare questi esperimenti. Le startup, per definizione, hanno scarsità di risorse (tempo e soldi, in primis) e quindi dare la giusta priorità alle attività da fare diventa fondamentale, soprattutto considerando che nel processo di Growth Hacking la velocità è uno dei fattori principali.

Per gestire la fase di prioritizzazione esistono diversi metodi, più o meno famosi, ideati da varie aziende o Growth Hacker in giro per il mondo. Uno degli approcci più utilizzati, creato da Sean Ellis, il “papà” del Growth Hacking, è il metodo ICE.

Si tratta di un sistema di autovalutazione basato su tre parametri (Impact, Confidence ed Ease) ai quali viene assegnato un valore da 1 a 10. Alla fine la media aritmetica dei tre parametri indica l’ordine di priorità rispetto al resto dell’elenco.

Il valore Impact (in italiano Impatto) indica che impatto avrà questa idea sul tipo di obiettivo che ci si è fissati; il valore Confidence (in italiano Fiducia) indica quanta fiducia abbiamo sulla riuscita dell’esperimento; il valore Ease (in italiano Facilità) indica quanto è semplice realizzare l’esperimento.

Una volta calcolato il valore ICE per ogni idea prodotta durante la fase di brainstorming si avrà una vera e propria “classifica” delle attività da fare durante le settimane successive.

Esecuzione

Dopo aver analizzato, ideato e classificato è finalmente arrivato il momento di eseguire gli esperimenti. La fase di esecuzione varia molto dal tipo di esperimento, dal tipo di metrica su cui si sta lavorando, dallo stadio di evoluzione dell’azienda e dal tipo di business.

Anche la fase di esecuzione coinvolge tutto il gruppo (come vedremo in dettaglio nel prossimo paragrafo) perché ci saranno esperimenti più tecnici dove sarà necessario l’intervento dei programmatori, esperimenti più legati al marketing dove dovranno intervenire i marketer, esperimenti legati alla UX, alla UI, al customer care, alle PR e così via.

Un aspetto importante da sottolineare in questa fase è quello di fare un buon design dell’esperimento prima dell’esecuzione vera e propria. Molte ambiguità e dubbi nascono proprio da una cattiva progettazione degli esperimenti più che da problematiche di esecuzione vera e propria.

Proprio per questo motivo è importante definire chiaramente alcuni aspetti come:

  • Le ipotesi di partenza. Come e perché nasce quel determinato esperimento? Quali sono state le ipotesi fatte dal team che hanno portato a quell’idea?
  • Le metriche da misurare. A quale metrica (o gruppo di metriche) è legato l’esperimento che stiamo per svolgere?
  • Parametri di riuscita. Come facciamo a valutare in maniera oggettiva che l’esperimento sia fallito o abbia avuto successo?

L’elenco è ovviamente più lungo di così, ma qui mi preme almeno far passare il messaggio che senza definire bene queste informazioni si rischia di avere problemi e informazioni poco chiare quando ricomincerà il ciclo e passeremo di nuovo alla fase di analisi.

Il Growth Hacking come attività di gruppo

A questo punto dovrebbe essere abbastanza chiara una cosa: il Growth Hacking è un’attività di gruppo e non legata ad una singola persona. Nel prossimo paragrafo vedremo più nel dettaglio il ruolo del Growth Master, ma prima di tutto vorrei spendere qualche parola sul Growth Hacking come attività che coinvolge l’intero team.

Proprio per il suo approccio multidisciplinare e trasversale, il processo di Growth Hacking va a impattare su tutti i reparti di un’azienda. Ho già detto nell’introduzione che le attività di marketing sono solo una (piccola) parte di ciò che viene poi eseguito durante gli esperimenti. Il team di Growth impatterà sul reparto commerciale, sulle PR, sul customer care, sul business development e così via.

Ecco perché nella parte introduttiva di questo post ho sottolineato che è errato paragonare il Growth Hacking ad attività come il performance marketing o la conversion rate optimization. Se proprio volessimo fare dei parallelismi semplificati (cosa sempre rischiosa) si potrebbe dire che questa metodologia ha più cose in comune con il mondo del Lean Startup, del Design Thinking e dell’Agile. Tutti questi “mondi” hanno in comune un approccio basato sui concetti di cicli e di iterazioni continue, l’importanza del feedback continuo e sulla rapidità di esecuzione delle attività.

Quando si parla di team di Growth è impossibile definire un team perfetto, anche perché può variare parecchio in base alla tipologia di azienda che si ha di fronte. Per esperienza personale consiglio di formare team con almeno un programmatore, un marketer e un designer. In aziende più grandi e strutturate a queste tre figure si può aggiungere un data analyst (se si ha la fortuna di averne uno in azienda), un esperto di UX, un creativo, e così via. A capo del team ci sarà il Growth Master che tratterò più dettagliatamente nel prossimo paragrafo.

Un team di questo tipo ha il vantaggio di essere completamente indipendente nell’esecuzione degli esperimenti e di non dover legare quest’ultima alla disponibilità di altri componenti del team, rendendo il processo molto più veloce e snello.

Brian Balfour definisce il Growth team come “un piccolo gruppo di persone con un approccio data-driven, focalizzati sulla crescita e con un approccio versatile e aggressivo”. Ed è esattamente questo che dovrebbero fare queste persone: avere il focus assoluto sulla crescita scalabile e sostenibile della propria azienda, avendo come unico punto di riferimento i dati e le metriche.

Non esistono le caratteristiche per un Growth team perfetto, ma sicuramente ci sono alcuni aspetti che non possono non mancare:

  • Devono avere una mentalità aperta verso il nuovo, e devono essere spinti dalla curiosità di testare di continuo.
  • Devono essere indipendenti, visto che solitamente questo team si muove a una velocità pazzesca e non può permettersi di attendere lunghi processi decisionali.
  • Devono essere in grado di imparare velocemente, perché si confrontano tutti i giorni con nuove tecnologie, nuovi canali e nuovi strumenti.

Negli ultimi anni si sono affermati due tipi di Growth team che oggi vengono presentati quasi come riferimento: il modello indipendente e il modello funzionale. Vediamoli in dettaglio.

Growth team indipendente

Il modello di team indipendente è quello reso famoso da aziende come Uber e Facebook ed è, ad oggi, quello più utilizzato da piccole aziende e dalle startup. Personalmente con i miei clienti e i miei studenti propongo sempre questo tipo di team perché ben si adatta ad aziende con meno di 50-60 dipendenti.

Il team indipendente, come si può facilmente supporre dal nome, si muove in maniera indipendente all’interno dell’azienda e lavora basandosi esclusivamente sulle metriche: quindi in una fase potrebbe lavorare su metriche di acquisition, in un’altra fase su metriche di retention e così via.

Altro aspetto di indipendenza di questo team è il fatto che fa capo direttamente al CEO dell’azienda.

Growth team funzionale

Il secondo modello di Growth team è quello funzionale che è stato reso famoso da realtà come Pinterest, Dropbox, Twitter e altri. Questo tipo di team è adatto ad aziende più grandi e strutturate.

Il modello funzionale, come si può ancora una volta intuire dal nome, si muove in base alle “funzioni aziendali” o ai reparti e proprio per questo motivo può esserci più di un team funzionale nella stessa azienda: uno potrebbe lavorare solo sul processo di onboarding, un altro potrebbe lavorare solo sull’app mobile, un altro ancora solo sugli aspetti B2B e così via.

Proprio per il tipo di struttura il team funzionale non fa capo al CEO ma al manager del relativo reparto. Allo stesso modo gli obiettivi, le metriche e le attività sono contestualizzate alla propria funzione aziendale, così come anche la roadmap e il budget.

Il Ruolo del Growth Master

Una volta capito che il Growth Hacking è un’attività di gruppo è importante, a mio avviso, dedicare qualche riga alla figura del Growth Hacker che ormai viene definito in mille modi diversi. Da Growth Master a Head of Growth, passando per CGO  e Growth Manager, il ruolo di questa figura è chiave in tutto il processo di Growth.

Se oggi qualcuno mi dovesse chiedere “Qual è la caratteristica principale di un Growth Hacker?” risponderei senza dubbio “Deve avere un approccio multidisciplinare”. Arrivati alla fine di questo intervento dovrebbe essere abbastanza chiaro che il Growth Hacking è l’intersezione di una serie di discipline e ambiti a volte molto diversi tra di loro, competenze che confluiscono in un’attività comune di sperimentazione continua.

Solo una persona con un approccio multidisciplinare (o un “profilo a T” se vogliamo usare una definizione tanto cara al mondo delle risorse umane) può gestire un processo di questo tipo, guardando al quadro generale e avendo la capacità di unire i puntini. Anche se è difficile descrivere la figura ideale per il Growth Master mi sento sicuramente di dire che è una persona che non smette mai di studiare, che sperimenta di continuo e che è portato di continuo a chiedersi perché. Insomma, è una persona spinta dalla curiosità, in tutto quello che fa.

A questo punto è importante sottolineare un aspetto a volte frainteso, il Growth Master non è un manager. Egli gestisce il processo di Growth Hacking, non il team. Se volessimo fare, ancora una volta, un parallelismo con il mondo della metodologia Agile, il Growth Master si avvicina un po’ alla figura dello Scrum Master. Esattamente allo stesso modo, questa figura andrebbe vista come una sorta di facilitatore che tiene sotto controllo l’intero processo di sperimentazione assicurandosi che tutto vada nel verso giusto.

Alcuni task tipici del Growth Master sono: seguire l’avanzamento dei vari esperimenti; gestire il Growth Meeting; definire e controllare i KPI; assicurarsi che tutti abbiano i task e le risorse necessarie per procedere; e così via.

Aspetto non secondario di questa figura è il fatto che porta la cultura Growth in azienda. L’errore più grave che si può commettere è pensare che chi fa Growth lavori separato dal resto dell’azienda con un approccio quasi elitario, mentre il resto del team sgobba quotidianamente sugli altri task. La cultura Growth dovrebbe permeare in tutti i rami aziendali e raggiungere ogni dipendente e dirigente attraverso report, riunioni, casi studio, ecc. Far capire al resto dell’azienda cosa sta facendo il Growth Team e con quali risultati è fondamentale per accreditarne il valore agli occhi degli altri.

Volendo provare a riassumere in sei caratteristiche il ruolo del Growth Master direi sicuramente che:

  • È un portavoce della metodologia Growth presso il resto dell’azienda
  • È un leader e deve avere la capacità di coinvolgere gli altri
  • Non è un manager perché gestisce il processo e non il team
  • È orientato ai dati e in quanto tale prende decisioni solo basandosi su di essi
  • È disciplinato perché in grado di seguire passo passo il processo di Growth
  • Ha spirito imprenditoriale ed è quindi capace di prendersi responsabilità

Il Growth Meeting

Avendo citato un paio di volte il Growth Meeting nel paragrafo precedente, vorrei dedicargli qualche parola prima di chiudere questo intervento. Il Growth Meeting altro non è che una riunione settimanale (nella maggior parte dei casi) durante la quale si fa il punto della situazione sulle attività di Growth in atto.

Ancora una volta, un po’ come succede nel mondo Agile, ci sono scuole di pensiero che preferiscono avere il Growth Meeting il lunedì e altre che invece lo preferiscono il venerdì. Non scendo mai nel merito della questione e lascio ai miei clienti e studenti scegliere il giorno preferito per gestire questa attività che, orientativamente, dura massimo un paio di ore.

Il Growth Meeting è un’attività snella e rapida per definizione e non è da intendere come una riunione quanto, piuttosto, come un rapido check sulle attività in corso da parte del Growth Master per assicurarsi che tutto vada per il meglio ed, eventualmente, intervenire dove ci sono problematiche o colli di bottiglia.

In linea di massima un meeting del genere è strutturato in questo modo:

  • Una decina di minuti all’analisi degli indicatori KPI (qui esempi) e delle metriche
  • Una ventina di minuti all’analisi dei progressi sugli esperimenti in corso e alla condivisione dei key learning (le lezioni imparate dagli esperimenti falliti)
  • Una decina di minuti all’analisi degli esperimenti in corso e quelli pianificati
  • Una ventina di minuti all’assegnazione dei nuovi ruoli e dei nuovi task

In una struttura (ideale) come questa in meno di un’ora si riesce a smarcare ogni aspetto importante e tornare alle proprie attività. Resta fuori l’attività di brainstorming che non è da svolgere necessariamente ogni settimana. Molto dipende dal numero di idee che si riescono a tirare fuori durante una sessione di brainstorming. Per molti team basta inserire un paio di ore al mese (subito dopo il Growth Meeting) per generare un numero di idee tale da poter procedere senza problemi con la sperimentazione.

In conclusione, il Growth Master si avvale di un mix di competenze orizzontali e verticali per gestire questo processo di ricerca e innovazione continua basato sull’analisi di dati quantitativi e qualitativi. Questo ovviamente lo porta a sconfinare nel dominio del design, marketing, supporto clienti, vendite, analisi dei dati, e così via.

Questo aspetto non deve trarre in inganno. Non significa, infatti, che il Growth Hacker sia un tuttofare. Anzi, il suo punto di forza è proprio il focus ossessivo su una metrica, anche se perseguito con un approccio olistico. In altre parole l’obiettivo è così chiaro e cruciale, che non è importante il modo con cui lo si raggiunge, basta che funzioni.

Buona sperimentazione!

Questo post è un mio estratto dal libro The Startup Canvas di Massimo Ciaglia

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