Intervista a Massimo Brandellero di The ID Factory

massimo brandellero

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In questa puntata di “Storie di mindset” ad essere intervistato è Massimo Brandellero di The ID Factory, una piattaforma per il controllo della supply chain per le industrie del fashion.

Alcune di queste interviste sono in formato video e sono disponibili sul mio canale YouTube, ma una piccola parte di esse sono in formato testo e saranno pubblicate su questo blog nelle prossime settimane.

Storie di mindset” è la rubrica che raccoglie le interviste (in formato integrale) che ho fatto per il mio libro Growth Hacking Mindset.

Raffaele Gaito: Ciao Massimo, come prima cosa presentati. Chi sei, di cosa ti occupi e cosa fa la tua azienda?

Massimo Brandellero: Sono Massimo, faccio impresa ma non mi piace come definizione. Mi piace di più pensare di essere sulla via del Guerriero, quel guerriero definito da Don Juan Matus descritto da Carlos Castaneda
ti riporto la citazione:

La differenza fondamentale tra l’uomo comune e il guerriero è che il guerriero affronta tutto come una sfida, mentre l’uomo comune prende tutto come una benedizione o una sciagura.

Ho sempre viaggiato molto, in Cina per la prima volta 19 anni fà, avevo 23 anni, a mie spese e per un solo week-end perché l’azienda per cui lavoravo allora non la vedeva come un’opportunità.

Il secondo è stato 30 giorni dopo e da lì non mi sono più fermato, proprio questo mi ha aiutato a vedere da più punti di vista le dinamiche commerciali del settore di cui mi occupavo (la calzatura) e il divario che si stava formando tra i modi di operare di un’industria che vale trilioni e le realtà che lo componevano totalmente diverse tra loro.

Proprio da qui nasce il progetto The ID Factory, nato nel 2015 come spin-off di un’altra mia azienda, We Are.

Proprio dall’affrontare come una sfida il cambiamento che percepivamo necessario nel mondo della fashion industry abbiamo lanciato quest’idea che supporta i Brand del mondo della calzatura e pelletteria che hanno il problema di gestire una supply chain molto ampia e frammentata a standardizzare le comunicazioni lungo la filiera e il modo in cui vengono monitorati i dati e valutate le performance dei vari player.

R.G.: In azienda usate metodologie lean/agile/growth? Se si, in che modo?

M.B.: Una parte importante dell’azienda lavora da remoto, una parte del customer service è in Cina e i gli utenti che utilizzano il servizio sono in più di 20 paesi in 4 continenti.

Una gestione lean dei processi e un approccio agile nello sviluppo è stata una necessità virtù:

  • Lato vendite gli incontri con i clienti attivi sono gestiti totalmente in tempo reale con Trello condiviso direttamente con i developer
  • Tutte le card di sviluppo derivanti da questi incontri vengono riviste in ottica di strategia generale
  • Alcune vengono scartate nonostante siano richieste di clienti paganti, se non portano benefici a tutti gli attori della supply chain
  • Le altre categorizzate per importanza, revenue e tempi di sviluppo e pianificate di conseguenza assegnando una priorità di lavoro settimanale
  • Usiamo molto le tecniche di growth per la validazione dei problemi percepiti e delle soluzioni che pensiamo di adottare, e nella validazione dell’esistenza del mercato

R.G.: Quanto è importante la sperimentazione per voi in azienda? Come la gestite e come riuscite a metterla a sistema?

M.B.: L’azienda nasce di per sé come un esperimento, la sperimentazione rappresenta quindi il più grande valore che riusciamo a trasferire ai clienti, e che sembra percepiscono.

“Quello che possiamo pensare di fare e che ancora manca” un cliente ha identificato come il suo valore più grande percepito nell’utilizzo del nostro strumento, ed è su quel “pensare” che ci concentriamo.

Ma devo dire che il cambio di marcia sulla sistematicità della sperimentazione ce lo ha dato il growth hacking, forse perché capiamo veramente bene qualcosa solo quando riusciamo a spiegarcelo con parole chiare.

Se prima quindi nascevano idee e provavamo a validarle, oggi sistematicamente affrontiamo l’argomento in modo strutturato e ciclico.

R.G.: Cosa significa per te sperimentare?

M.B.: Senza ombra di dubbio per me sperimentare equivale a ricercare.

Molte volte non so neanche cosa precisamente sto cercando e non sempre lo voglio sapere, se in una stanza buia cerco un tavolo, mi muoverò verso il centro con le mani tese di fronte a me e se c’è prima o poi lo troverò, se non c’è non lo troverò.

Ma aspettandomi cosa trovare, mi perderei il gatto che sta sotto al tavolo o la finestra a fianco alla porta o l’interruttore della luce in fondo in basso a destra.

Se cerco il tavolo al massimo trovo il tavolo.

Per essere un pò più pratici, quando alla domanda “cosa succederebbe se provassimo a?” la risposta è “non lo so, ma se” allora siamo davanti a un potenziale esperimento:

  • Qualsiasi cosa non faccia parte delle best practice del settore
  • Che non abbia un risultato già misurato
  • Che abbia un perché
  • E che abbia un “ma se va bene”
  • Ma che non comporti delle conseguenze evidentemente negative

Ecco, questo credo sia la classificazione che do all’esperimento: una ricerca.

R.G.: Raccontami un esempio di esperimento fallito da cui avete imparato qualcosa.

M.B.: Durante il nostro secondo anno (2016) abbiamo pensato che gli stakeholder che utilizzavano la nostra piattaforma, che nel frattempo cresceva in modo importante, avessero un problema: la digitalizzazione delle collezioni in ottica di marketing, e abbiamo sviluppato un’app in tal senso.

Problema validato, cliente tipo validato, soluzione offerta validata, modello di business validato, primi clienti che arrivano, soddisfatti e poi… tutto si ferma, l’interesse scende e non riusciamo a chiudere nuovi contratti per questo strumento e l’anno successivo non abbiamo i rinnovi dei contratti precedenti.

Progetto accantonato.

Oggi i motivi ci sono chiari: eravamo un’azienda giovane con uno strumento innovativo per il mercato, dovevamo contemporaneamente sensibilizzare e creare un mercato.

Questo richiede un’energia enorme e anche se si identificassero altri prodotti/servizi con ottime potenzialità bisogna avere l’onestà intellettuale di non farsi trascinare a voler far tutto.

R.G.: Raccontami un esempio di esperimento riuscito da cui avete imparato qualcosa.

M.B.: A un certo punto volevamo validare l’idea che la percezione del cliente rispetto al nostro strumento fosse diversa rispetto al nostro iniziale focus, perché questo aspetto era emerso dalle interviste telefoniche ad alcuni clienti.

Noi parlavamo di tracciabilità della materia prima, mentre stava uscendo una percezione diversa da parte dei clienti. Quello che sembrava piacere del nostro servizio era la parte di analisi dei dati, quindi due mondi diversi.

A quel punto l’obiettivo era capire se i nostri clienti percepisserò piu valore in una o nell’altra faccia della stessa medaglia.

Abbiamo fatto un test.

Abbiamo pianificato dei meeting con gli stessi clienti intervistati e utilizzando Qlick abbiamo simulato un sistema di analytics e lo abbiamo semplicemente inserito come immagine statica all’interno di quella che sembrava essere la piattaforma (ma non non lo era, era una semplice presentazione Qwirl).

Il risultato è stato incredibile: i clienti erano entusiasti di questa nuova funzionalità (che in realtà non esisteva ancora) e non vedevano l’ora di utilizzarla.

La lezione importante è stata sull’importanza di gestire le interviste cliente in modo sistemico e strutturato.

R.G.: Quali sono le metriche principali che tenete sotto controllo?

M.B.: Le metriche che monitoriamo sono nella maggior parte quelle che rappresentano una best practice nei vari step del funnel AAARRR.

Inoltre stiamo cercando di monitorare gli eventi di sensibilizzazione che vengono promossi dalle varie organizzazioni di settore in modo da poter stimare l’evoluzione nel tempo della prontezza del mercato a percepire la necessità del servizio che eroghiamo.

Questo ci aiuterebbe ad accorciare la parte altra del funnel: quanti eventi, dove farli, quanti partecipanti, quando durano, ecc.

R.G.: Dimmi una metrica che potrebbe sembrare poco importante, ma che per voi è fondamentale?

M.B.: Il nostro flusso di attivazione clienti è molto lungo, mediamente oltre i 12 mesi per il passaggio di un contatto a cliente pagante. Quindi una metrica per noi fondamentale è il tempo.

Nel nostro funnel abbiamo lavorato molto sul monitorare la fase di Activation per definire quali siano effettivamente gli step che ci fanno avvicinare a un contratto dopo che il cliente si sia dimostrato interessato e abbia deciso di dedicare del tempo all’approfondimento.

Dopo aver identificato una matrice comune monitoriamo i vari incontri che abbiamo con ogni cliente e se superiamo determinati livelli di approfondimento o meno e in che tempi.

Quindi calcoliamo il tempo che passa dal primo incontro ai successivi e quando superiamo determinati break event che ci fanno avvicinare all’obiettivo.

R.G.: Quanto spesso parli con i tuoi clienti e in che modo?

M.B.: Abbiamo la fortuna di poter parlare con i nostri clienti in modo continuativo.

Diversifichiamo la nostra base clienti in due macro categorie, Brand e Stakeholder.

I primi sono i punti di riferimento, sono il nodo centrale nelle politiche di gestione della supply chain e sono i promotori, i nostri “evangelist”, con cui cerchiamo di mantenere dei contatti mensili face-to-face.

In questi incontri mettiamo insieme sia delle ricerche di validazione di nuove idee, sia la ricerca di feedback lato Brand e derivanti dalla supply chian che gestiscono.

Abbiamo notato che volte c’è discrepanza tra i feedback degli stakeholder che riceviamo dal brand rispetto ai feedback che riceviamo direttamente dagli stessi, e questa area grigia di percezioni discordanti ci da una visione d’insieme più completa.

Lato stakeholder invece gestiamo i feedback totalmente in modo digitale, survey brevi e semplici, ma obbligatori in piattaforma su base bimestrale dove inseriamo anche domande rivolte al NPS, in modo da avere una misurazione del livello di soddisfazione.

Per i prospect invece abbiamo attivato da qualche mese dei feedback form dopo ogni call o presentazione e stanno uscendo delle informazioni veramente interessanti.

R.G.: Quanto è importante nella vostra azienda “ragionare fuori dagli schemi”? Perché?

M.B.: Sinceramente non mi sono mai posto questo tipo di domanda in questi termini, credo che il motivo sia proprio perché è intrinseco nella ragion d’essere del progetto e dell’azienda.

Mi focalizzerei quindi più sugli schemi.

Credo che gli schemi e la loro individuazione siano importantissimi e la loro conoscenza approfondita sia fondamentale.

Avere una comprensione il più chiara possibile degli schemi che regolano ogni industria pone le basi per vedere realmente dove sono i loro limiti, e solo quando si identificano realmente quei limiti si può realmente vedere oltre.

R.G.: Come riuscite a stimolare la creatività e il pensiero laterale?

M.B.: Sono convinto che gli stimoli esterni siano molto potenti nei momenti di brainstorming e che siano necessari degli attivatori e percorsi pre meeting altrettanto potenti.

Nel tempo abbiamo puntato principalmente sull’avere ambienti alternativi oltre ad ambienti di lavoro classici e devo dire che la versione ad oggi più riuscita è stata una giornata completa in una SPA di un albergo dove era garantita l’assenza di telefoni e l’alternanza di sessioni di lavoro con sessioni di relax.

Le sessioni di lavoro sono state registrate e le idee uscite in quel momento o a seguito degli input di quel momento sono state importantissime.

R.G.: Oltre ai competitor, studiate le industrie simili? Se si, raccontami qualcosa che avete imparato in questo modo.

M.B.: L’industria dell’auto è stata altamente stimolante da questo punto di vista.

Abbiamo preso molto dai sistemi e protocolli che adottano per monitorare la loro supply chain, per il mondo dei controlli di processo abbiamo rubato molto al mondo dei laboratori di certificazione, ma in questo momento guardiamo molto agli Analytics in termini di comunicazione.

R.G.: Quanto è importante per voi la multidisciplinarità e come la alimentate?

M.B.: È una condizione sine qua non, non solo nel lavoro, ma più di tutto nella vita.

Stiamo vivendo in un periodo fantastico in cui la formazione è a portata di tutti, in modo flessibile ed economico.

Lo stesso linguaggio sta cambiando in modo interessantissimo, perché sempre più alla portata di tutti per cui sia la multidisciplinarietà che un approccio olistico stanno diventando delle basi da cui non si può più prescindere.

Non perseguire obiettivi di crescita personale a tutti i livelli comporta il rischio di problemi di comunicazione enormi, ma non perché qualcuno usa inglesismi o acronimi e altri no, ma perchè le parole per alcune persone portano con sé un significato completo e ampio mentre per qualcun’altro sono semplicemente una moda del momento.

Abbiamo formato un team molto variegato sin dal giorno zero in termini di specificità, ma questa era la parta facile, la parte più stimolante è avvicinare e mischiare le varie competenze per far uscire qualcosa di nuovo.

E anche qui sperimentiamo:

  • Abbiamo in essere percorsi di Coaching a livello personale
  • Formazione continua di tutto il team
  • Ogni collaboratore è libero di fare qualsiasi tipo di percorso formativo in qualsiasi momento
  • Abbiamo la nostra biblioteca aziendale disponibile a tutti

R.G.: Quali sono le domande che guidano il vostro business?

M.B.: Rischiando di essere scontato dopo Simon Sinek che si è impadronito della parola credo che per chiunque l’unica domanda sempre valida e fondamentale sia: perché?

R.G.: Fammi un esempio di una volta che in azienda avete detto “perché no?” di fronte a un’idea o un’opportunità e cosa è successo dopo.

M.B.: La nostra estrazione deriva da prodotti fisici, il mercato in cui agiamo parla di sotto-prodotti fisici e l’industria che rappresenta la nostra area di competenza è un’industria con delle best practice molto radicate.

Qualità, tempi e prezzo guidano questa fetta di mercato e nella maggior parte dei casi le aziende hanno 50 anni o più di storia e sono aziende milionarie, ma a gestione familiare e nella maggior parte dei casi è ancora la prima generazione a guidare la macchina con tutto quello che porta con sé.

Il pensare di avere una gestione dei dati decentralizzata sembrava una strada impossibile solo da percorrere, ma poi ci siamo detti “perché no?”.

Perché non provare a spostare la percezione sui reali benefici che una decentralizzazione della gestione e analisi dei dati può dare facendo toccare con mano il beneficio derivante da un’appropriata gestione delle informazioni?

Domanda banale in un’era in cui i dati sono la nuova religione, ma è la domanda che ci ha fatto fare la svolta.

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