Intervista ad Antonio Rotolo di Ludwig

antonio rotolo di ludwig

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Continua la mia rubrica Storie di mindset con Antonio Rotolo di Ludwig, che non è la prima volta che viene ospitato su questo blog. Ne avevo parlato in tempi non sospetti come un interessante caso di Growth Hacking tutto italiano.

Alcune di queste interviste sono in formato video e sono disponibili sul mio canale YouTube, ma una piccola parte di esse sono in formato testo e saranno pubblicate su questo blog nelle prossime settimane.

Storie di mindset” è la rubrica che raccoglie le interviste (in formato integrale) che ho fatto per il mio libro Growth Hacking Mindset.

Ora passiamo all’intervista ad Antonio.

Raffaele Gaito: Come prima cosa presentati. Chi sei, di cosa ti occupi e cosa fa la tua azienda?

Antonio Rotolo: Antonio Rotolo, archeologo, umanista digitale e imprenditore.

Dopo il dottorato in storia ho iniziato a guadagnarmi da vivere come ricercatore universitario prima a Granada, poi al MIT di Boston a Konstanz in Germania. Mentro ero al MIT (nel 2013-14) ho capito che avrei potuto usare con successo le mie capacità in ambito umanistico nel mondo digitale e dell’innovazione.

Così nel 2014 ho dato vita a Ludwig insieme ai miei soci. Ludwig è un motore di ricerca linguistico che ti aiuta a scrivere meglio in inglese.

Ricopro il ruolo di CEO: mi occupo principalmente di prodotto e strategia ma, essendo solo in 6, devo reinventarmi ogni giorno in un ruolo diverso (SEO, customer service, grafico, blogger, ecc).

R.G.: In azienda usate metodologie lean/agile/growth? Se si, in che modo?

A.R.: Nella nostra pratica lavorativa abbiamo preso dalle metodologie lean e agile e dal growth hacking i pezzi che ci interessavano.

Per esempio ci siamo costruiti un funnel (adattato al nostro caso) che ci permette di tenere sotto osservazione obiettivi e KPI e ci guida in tutte le nostre scelte. Usiamo Trello per suddividere e monitorare il lavoro (fondamentale visto che lavoriamo da remoto).

Facciamo call settimanali in cui impostiamo il lavoro per la settimana che poi seguiamo su Trello e discutendo progressivamente su chat collaborative. Lavorando da remoto non possiamo fare i famosi stand up meeting e non abbiamo neppure un “guardiano” della metodologia agile.

In compenso ci sono io che cerco di raccogliere tutti gli input da parte del team, di proteggere il lavoro degli sviluppatori dalle interruzioni e di allineare e rendere fluido e coerente il lavoro di ogni membro del team.

R.G.: Quanto è importante la sperimentazione per voi in azienda? Come la gestite e come riuscite a metterla a sistema?

A.R.: Il nocciolo della questione non è quanto sia importante la sperimentazione: sperimentare significa fare impresa, ancora di più se si tratta di prodotti innovativi.

Noi sperimentiamo tutto il tempo, su qualsiasi cosa pensiamo sia sensato sperimentare (prodotto, prezzo, processi di produzione) e non potrebbe essere altrimenti.

Il vero nocciolo è la gestione della sperimentazione: prioritizzazione degli esperimenti, disegno (metodo e durata), significatività, interpretazione. Il background da ricercatori che io e i miei co-founder condividiamo ci ha aiutato a dare rigore metodologico agli esperimenti.

R.G.: Cosa significa per te sperimentare?

A.R.: Sperimentare serve a prendere decisioni informate, ovvero basate su reazioni misurabili dei nostri utenti rispetto ad un input.

Sperimentare permette di procedere per piccole iterazioni. Procedere per piccole iterazioni basate su esperimenti salva dal rischio di lavorare per mesi alla realizzazione di cose di cui nessuno ha bisogno.

R.G.: Raccontami un esempio di esperimento fallito da cui avete imparato qualcosa.

A.R.: Mi permetto di non essere d’accordo su come hai posto la domanda.

Gli esperimenti non falliscono, al massimo danno risultati diversi rispetto all’ipotesi. L’unica cosa che fallisce sono le aziende che non li praticano.

Un esempio, reale ma abbastanza classico, è un nostro recente esperimento sul pricing.

In India abbiamo moltissimi utenti, ma pochi di questi utenti si trasformano in customer paganti. Volevamo testare se abbassando il prezzo il conversion rate aumentasse abbastanza da farci incassare di più.

Abbiamo scoperto che, pur avendo dimezzato il prezzo, riuscivamo a solo il 10% di abbonamenti in più e di fatto guadagnavamo di meno. Anche se l’esito dell’esperimento è stato diverso dall’ipotesi iniziale, l’esperimento è da considerarsi un esperimento riuscito.

R.G.: Quali sono le metriche principali che tenete sotto controllo?

A.R.: Anche per le metriche abbiamo proceduto per piccole iterazioni e di pari passo con la sperimentazione.

Ad oggi abbiamo costruito un sistema abbastanza complesso che ci permette di misurare (letteralmente) qualsiasi cosa succeda dentro Ludwig. Ovviamente per non perderci, limitiamo il numero di metriche da tenere sotto controllo a quelle più significative per ogni livello del nostro funnel.

Per esempio, nel livello di upgrade misuriamo le conversioni degli utenti da free a premium.

Le metriche che consideriamo rilevanti in questo livello sono:

  • il numero di nuovi utenti premium;
  • il numero di utenti a cui abbiamo proposto un upgrade;
  • il numero totale di modali upgrade mostrati e il success rate dei modali.

Ognuna di queste metriche ci permette di osservare un angolo leggermente diverso del fenomeno che vogliamo osservare. Se stiamo facendo un esperimento, possiamo aggiungere altre metriche per avere una visione più granulare (per esempio il success rate di ogni singolo prezzo).

R.G.: Quanto spesso parli con i tuoi clienti e in che modo?

A.R.: Da questo punto di vista siamo molto fortunati perché abbiamo utenti molto comunicativi.

Paradossalmente ci siamo trovati a dovere ridurre il numero di punti di contatto. Avevamo una chat sul sito che volevamo usare per generare lead e dare al contempo assistenza tecnica, ma eravamo davvero sommersi dai messaggi (tantissimi spammosi o non rilevanti).

Invece, limitando i punti di contatto all’email abbiamo scremato un po’ e riceviamo comunque una media di dieci email ogni giorno (senza contare le risposte alle email automatiche), con i feedback più disparati.

Qualcuno si limita a mandare un saluto o un ringraziamento, altri sono molto specifici e competenti nel segnalarci bug, altri hanno bisogno di assistenza tecnica.

Divido il fardello del customer service con Roberta. È estremamente dispendioso, ma molto utile. Mentre gli esperimenti restituiscono molto bene gli aspetti quantitativi, il dialogo con i singoli utenti permette di apprezzare l’aspetto qualitativo (per esempio la richiesta di una nuova feature) ed in questo modo fornisce linfa per altri esperimenti quantitativi.

R.G.: Dimmi qualcosa di importante che hai scoperto intervistando i clienti.

A.R.: Abbiamo creato un’app desktop che si integra con tutti gli editor di testo.

Per farla funzionare basta selezionare del testo e cliccare uno shortcut. Abbiamo spiegato come usarla in maniera chiara e in una singola immagine all’apertura dell’app.

Pensavamo che fosse semplicissimo.

Parlando con i nostri utenti abbiamo scoperto che quasi nessuno conosceva l’uso della scorciatoia di tastiera.

Ho scritto un post per spiegare meglio come funzioni l’app ma neanche con quello sono riuscito a fare breccia.

Dovremo trovare un modo per rendere il flusso più chiaro in futuro e se non avessimo parlato con i nostri utenti, avremmo dato per scontato che tutto funzionasse perfettamente.

R.G.: Che ruolo ha l’assistenza clienti per la vostra azienda? Come l’avete impostata?

A.R.: Abbiamo cercato di impostare il prodotto in modo che gli utenti potessero essere autonomi nell’interazione con il prodotto (registrarsi, sottoscrivere un abbonamento, modificare l’abbonamento, cancellarsi).

Come ti accennavo, avevamo una chat sul sito, ma creava troppo rumore di fondo.

Gestiamo quasi tutto via email, con email transazionali automatizzate per quasi tutti i processi. Rispondiamo io e Roberta personalmente a quasi tutte le email dirette. Prioritizzo il customer service tecnico concentrandolo in momenti specifici perché cerco di tenere gli sviluppatori concentrati sul loro lavoro principale.

R.G.: Quanto è importante nella vostra azienda “ragionare fuori dagli schemi”? Perché?

A.R.: Nelle università in Italia non si insegna né come si faccia un’impresa, né, men che meno, una startup.

Noi venivamo dal mondo ovattato della ricerca accademica e prima di Ludwig non avevamo mai avuto vere esperienze di lavoro in azienda. Per questo non conosciamo quale sia il pensiero “normale” all’interno di un’azienda tipo.

Abbiamo trovato la nostra via per fare impresa.

R.G.: Come riuscite a stimolare la creatività e il pensiero laterale?

A.R.: Lavorando da remoto ci è difficile dedicare un tempo alla creatività in modo sistematico, in compenso ci ritagliamo ben sette giorni consecutivi ogni bimestre per dei periodi di full immersion che noi chiamiamo Ludwig’s week.

Sono i momenti del confronto, dei brainstorming e del team building.

In questi incontri alterniamo dei momenti di confronto più strutturati in cui si discutono tematiche specifiche e momenti in cui lasciamo libero sfogo alla creatività.

Siamo amici, stiamo bene insieme e tra una birra e una risata, le idee vengono sempre fuori.

R.G.: Oltre ai competitor, studiate le industrie simili? Se si, raccontami qualcosa che avete imparato in questo modo.

A.R.: Le lingue umane sono estremamente complesse da “capire” per le macchine.

Sono tanto piene di sfumature, doppi sensi e trabocchetti che è ancora impossibile per una macchina capirle.

Nonostante i progressi degli ultimi anni nel campo del machine learning, la comprensione delle lingue umane rimane l’elefante nella stanza.

Le difficoltà sono evidenti:

  • Google con i suoi 20.000 ingegneri non è ancora riuscita a creare il traduttore perfetto (Bing non ne parliamo).
  • Grammarly con $110M di round di finanziamento e diversi anni nel settore è uno strumento utile per correggere qualche errore di distrazione, ma non è affidabile, infatti manca tanti errori (falsi negativi), a volte segnala come errori espressioni che invece sono corrette, inducendo in errore (falsi positivi) e comunque non tiene conto del fatto che un’espressione formalmente corretta può non avere nessun senso nel modo in cui è usata (non usa il contesto).

Noi, a differenza di Google e Grammarly, abbiamo a disposizione un team di sei persone e nessun finanziamento.

uindi abbiamo deciso che, se da un lato avremmo lasciato Google e Grammarly l’ingrato compito di creare l’algoritmo perfetto, noi ci saremmo concentrati sulla sinergia uomo-strumento e avremmo creato un algoritmo che, lungi dal volere essere perfetto in astratto, servisse a potenziare le capacità dei nostri utenti, rendendoli in grado di trasformare autonomamente le loro idee in frasi ben scritte in inglese e sensate.

Ludwig, rende l’utente attivo, critico e padrone di scegliere, non si limita a fornire correzioni o traduzioni che l’utente deve accettare passivamente.

In metafora è come se, per permettere agli uomini di attraversare un oceano, Google o Grammarly stessero cercando di svuotarlo con delle pompe potentissime, mentre noi ci fossimo limitati a costruire una barca per navigarlo.

R.G.: Fammi un esempio di una volta che in azienda avete “sfidato le assunzioni”.

A.R.: Di scelte controintuitive (sbagliate?) ne abbiamo fatte tantissime, ma non so dirti se siano state vincenti perché non ho la controprova.

Visto che Ludwig oggi è vivo e gode di ottima salute, posso solo dirti che probabilmente non dovevano essere errori troppo gravi oppure che, nonostante fossero gravi, non siamo morti.

Una scelta controintuitiva tra tutte è il nostro modello di business. Nel mercato di riferimento di Ludwig ci sono tantissimi servizi gratuiti, basta pensare a Google Translate, Bing o Linguee e Reverso. Mettere un prodotto con una versione premium a pagamento in un mercato del genere è stata una scelta apparente controintuitiva.

Google Translate è un prodotto adatto a tutti, anche alla pizzeria sotto casa che lo usa per tradurre “Pappardelle agli scampi” con “Pappardelle to escape him” (un ringraziamente a tutte le pizzerie che si affidano ciecamente ai traduttori automatici per avermi regalato delle vere chicche).

Noi vogliamo soddisfare i bisogni linguistici di una nicchia specifica di utenti: quelli che hanno veramente a cuore la correttezza della loro scrittura in inglese, perché il loro successo professionale dipende dalla capacità di esprimersi in maniera efficace (ricercatori universitari, studenti, blogger, giornalisti, social media manager, traduttori professionisti, proofreader ed editori).

Se riesci a centrare il bisogno di una nicchia, è probabile che qualcuno paghi, se cerchi di fare un prodotto “one size fits all”, ti ritroverai con un prodotto come Google Translate, che è un prodotto meraviglioso, ma è inutilizzabile ai fini del business, se non sei Google.

R.G.: Quanto è importante per voi la multidisciplinarità e come la alimentate?

A.R.: Il team di Ludwig è fatto da un archeologo, un giurista, una filosofa, due ingegneri e un designer.

Insieme abbiamo messo in piedi un software nel campo della linguistica computazionale con 1 milione di utenti unici mensili da 200 paesi.

Più che alimentare la multidisciplinarietà, a volte dobbiamo cercare di limitarla.

R.G.: Dimmi un paio di domande che vi hanno aperto la mente su qualche aspetto del business.

A.R.: Un giorno ci siamo chiesti, “chi ha detto che dobbiamo avere per forza un’app mobile?” e abbiamo puntato tutto sull’app desktop.

In un mondo in cui tutto è mobile first, noi abbiamo sviluppato un’app desktop. Anche questa è una scelta controintuitiva, ma solo in apparenza.

Ricercatori, studenti, blogger, giornalisti, professionisti della lingua come traduttori e proofreader, lavorano più spesso e in maniera più intensiva dal computer che dallo smartphone.

Quando scoprono che l’app desktop si integra nel loro flusso di lavoro e gli permette di cercare su Ludwig senza dovere andare sul sito web, ma semplicemente selezionando del testo e cliccando una scorciatoia di tastiera diventano utenti ancora più intensivi.

Chi inizia ad usare l’app desktop mediamente incrementa il numero di ricerche su Ludwig del 15%.

R.G.: Fammi un esempio di una volta che in azienda avete detto “perché no?” di fronte a un’idea o un’opportunità e cosa è successo dopo.

A.R.: Ludwig è un motore di ricerca linguistico che confronta frasi scritte dai propri utenti con frasi in inglese corrette contenute nel nostro database con 150 milioni di frasi provenienti da fonti affidabili e di qualità.

Oggi supporta ben 180 lingue ma nel 2016 l’usabilità di Ludwig era limitata solo alla lingua inglese (sia in input che in output).

Un giorno, durante una delle nostre Ludwig’s week Francesco, uno dei nostri sviluppatori, ebbe l’idea di integrare Google Translate dentro Ludwig tramite API.

Il meccanismo semplicissimo permetteva di usare Ludwig anche come traduttore contestualizzato. In questo modo l’utente avrebbe potuto scrivere direttamente in inglese o in qualsiasi lingua.

Nel caso in cui la lingua di input non fosse l’inglese, invece di ricevere una traduzione in inglese da Google, avrebbe visto gli esempi contestualizzati di Ludwig.

In questo modo si sarebbe reso conto immediatamente della bontà della traduzione o sarebbe stato in grado di trovare migliori formulazioni per la sua traduzione.

Con un costo di sviluppo assolutamente trascurabile (l’integrazione delle API in 3 ore di lavoro), abbiamo potuto incrementato tantissimo l’usabilità di Ludwig al punto che già due settimane dopo avevamo triplicato il nostro bacino di utenti.

R.G.: In chiusura ti chiedo di consigliare un libro (non per forza di business) che i miei lettori devono assolutamente leggere.

A.R.: La singola lettura più utile per la mia formazione come imprenditore sono state le lettere annuali (dal 1977 ad oggi) che il leggendario Warren Buffet ha scritto agli azionisti della sua società Berkshire Hathaway.

Mi hanno aiutato a capire come si fa a scegliere una buona società su cui investire e quindi come costruirla.

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